RSS

RECENSIONE DI DELFINA METZ: COSÌ MERI LAO COSTRINSE FELLINI A ESSERE SINCERO

Il Tempo, sabato 8 maggio 2004 Federico Fellini aveva due tabù nel suo rapporto con l’immagine e l’essenza delle donne: la donna incinta e la donna autonoma intellettualmente e sessualmente nei confronti dell’uomo, senza per questo essere lesbica. Ma per realizzare il suo tormentato film La città delle donne (1979), verso il quale soffriva di un blocco creativo totale, dovette scendere a patti con i suoi tabù esistenziali. E pochi degli estimatori del film sanno che lo sblocco della sua creatività fu opera delle intellettuali e delle artiste femministe di quell’epoca ruggente del movimento, che oggi si ricorda con un malinconico “post” messo davanti alla parola femminismo (un altro tabù culturale di tutti e tutte?). Nel libro La città delle donne (Fellini, Betti, Zanzotto; Garzanti editore 1980) a film licenziato, il carismatico regista ringrazia per questo apporto Ippolita Avalli, Leonetta Bentivoglio, Adele Cambria, la sottoscritta Delfina Metz, Jodelle Hawks e Meri Lao per “la collaborazione con suggerimenti e suggestioni alla prima parte del racconto”. Ignora, questo sublime genio della celluloide e sublime “ladro” di idee (Flaiano ne sa qualcosa. Idee che, del resto, lui interpretava e trasformava in personali scene memorabili) le suggestioni che le intellettuali femministe, fiere di collaborare con lui (alcune pagate, alcune no, compensate dalla soddisfazione di essere ammesse sul set o di fare le comparse) non smettevano, da lui sollecitate, di proporgli fino all’ultima ripresa. La dignità e il valore professionale di Meri Lao (musicista, poetessa, scrittrice nota internazionalmente, donna originale e tosta) ha rimesso le cose a posto nella conferenza che ha tenuto, a Roma, al centro culturale Cervantes a piazza Navona, illustrata da un video sulla sua vicinanza durante i ciak al Nostro, e condita con la sua ironia congenita. Come congenito è il suo femminismo professionale e emotivo, che lei definisce “naturale” e “senza bandiera”, cioè senza background di cortei, mimose, slogan anti-maschietti. In una parola, un femminismo esistenziale, non spettacolare e narciso. Davanti a un pubblico ambosessi (la più parte degli uomini erano giovani, quelli che, davanti alla crisi odierna dei rapporti con l’altra metà del cielo, vogliono capire), Meri ha raccontato “Il Fellini che ho conosciuto”, un Fellini geniale, sì, ma contraddittorio, generoso ma anche avaro e latitante nel comunicare se stesso con sincerità. (“La verità senza veli – ebbe a dirci una volta – ha qualcosa di osceno”). Un Fellini che lei ha descritto con ammirata spietatezza nella poesia Satiro Egerio e che il regista in un attimo di sincerità “masochista” ritenne il ritratto più significativo che avessero fatto su di lui. Oltre che le suggestioni, Meri ha regalato a Fellini, come autrice, Una donna senza uomo, un tango-congo, colonna sonora del congresso femminista che appare nella prima parte del film. E anche l’ultimo suggerimento, questa volta disatteso, per il finale del film, un ennesimo problema per l’autore. Eccolo: invece della mongolfiera che si innalza in aria sorreggendo una bella ragazza tettuta, un po’ madonna e un po’ vedette da circo, la mongolfiera, alta in volo, avrebbe potuto essere una donna con un gravido pancione. Vinse, come sappiamo, il tabù molto latino del genio riminese. Niente innalzamenti al potere naturale, misterioso e per lui inquietante della maternità; largo invece alla donna-madonna e alla donna-puttana. L’harem tutto speciale delle femministe, illuse e motivate, fu battuto dall’harem atavico, immaginario, famigliare e molto più rassicurante del misticismo laico di Fellini e del suo imprinting sessuale a base di “saraghine”.