IL MIO INCONTRO CON GIORGIO BELLEDI
pagina di Meri Lao per il memorial recital Sono Belledi
del 7 novembre 2009 al Theatro del Vicolo di Parma
Si era alla fine degli anni Settanta. Avevo temporaneamente abbandonato la carriera pianistica, in compenso curavo molti dischi e quasi ogni anno riuscivo a pubblicare un libro. Libri sui canti ribelli dell’America Latina, sul femminile musicale ossia Musica strega, sulla didattica, e il primo saggio sul tango apparso in Europa, edito da Bompiani, coi buoni auspici di Umberto Eco, di Antonio Porta e di Astor Piazzolla. Pur abitando a Roma, viaggiavo spesso per lavoro a Milano e a Parigi. Una vera “nordica” vento in poppa.
Un giorno ricevo una telefonata sui generis: è Giorgio Belledi. Dice di aver letto tutto quanto ho scritto, e che in Tempo di tango, soprattutto, ha trovato la chiave interpretativa delle sue proprie paure, e voleva farne uno spettacolo. Prendiamo un appuntamento, a Roma, a casa mia.
Era estate. Mi trovo davanti questo parmense che sembra un sudamericano da tango, l’aria un po’ nihilista, i baffetti, il vestito grigio, il cappello sulle ventitré. Mostra il libro sul tango pieno di sottolineature. Vuole che gli spieghi la mia affermazione che il tango ha paura del futuro (“terror al porvenir”), perciò si rifugia in situazioni trascorse, nel passato (“tutta la mia vita è ieri”), nella “vecchia gioventù”…
Belledi sembra dare un senso letterale alle metafore. Mi domanda se è lecito fare uno spettacolo in cui un uomo, terrorizzato dal futuro, assolda un’orchestrina, la quale, al momento della crisi, ha il compito di suonargli un tango per riportarlo al passato. Accanto a lui, una donna che gli fa da madre, da maestra, da infermiera, da amante, da moglie, lo rende vedovo, e lo ammazza… Ma qual è la grande paura?, gli domando. Ovvio: quella dei buchi neri. Quali, i buchi neri astrofisici, l’antimateria? Certo, finiremo tutti divorati da un buco nero! Lo dici in senso metaforico per la morte? No, no, i buchi neri proprio!
Ho amato subito questo Giorgio Belledi che voleva esorcizzare teatralmente una siffatta incommensurabile paura.
Ho curato tutte le musiche del Tango nero, sia quelle originali, sia quelle mie: la trascrizione, gli arrangiamenti, l’adattamento in italiano. L’ha prodotto la Compagnia del Collettivo, con allegria e rispetto. Durante le prove ci siamo divertiti un mondo. Anche quando tra i candidati violinisti che si erano presentati, uno mi ha dato della “sporca borghese” perché gli chiedevo di fare un arpeggio di sol discendente e lui non leggeva la musica. Per fortuna abbiamo pensato di mettere un cartello al Conservatorio per un provino, e arrivò un ventenne al quale chiesi di suonare un Capriccio di Paganini e lui, bellissimo e sicuro, domandò “Quale?” Ed ebbe la parte, beninteso. Una volta è venuta a trovarci Pina Bausch, e da lì le è scattata la voglia di tentare le vie del tango. E a me, tornata a casa, la voglia di riprendere il pianoforte e mettere in scena la mia Tanghitudine.
Caro Giorgio, sei riuscito a salvarti dai buchi neri astrofisici e sei partito in un modo più normale. Mi dispiace di non essere presente in teatro a testimoniare per te, con uno dei nostri tanghi. Sono stata investita da una macchina (la vita da pedone è sempre più dura qui a Roma) e mi trovo in seggiola a rotelle, come il protagonista di Tango nero!