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Intervista a Meri Lao di Mariantonietta Mazzei, laureanda in Filosofia con una tesi su “Danza e Terapia” sul sito argentinaonline

5 aprile 2004
D – Lei si occupa di tutto: musica classica, letteratura, tango, bolero…  Quale è la sua vera grande passione?
R – Conoscere, imparare, pensare, e coltivare l’ironia.
D – In particolare del tango e del bolero cosa la affascina maggiormente?
R – La musica e i testi che, nel tango, alludono ai problemi esistenziali, alla finitudine della vita, al passato irreversibile, e nel bolero esprimono disinibiti le richieste amorose, il dare e l’avere dell’erotismo.
D – Questa sua grande energia è frutto dell’aria latinoamericana che lei ha respirato per tanti anni?
R – Non credo. Forse è perché sono bradicardica, perché pratico lo hatha-yoga da oltre 50 anni, o perché scopro tante cose nuove e il tempo non ti dà tregua, ti sperona.
D – Fausto Manara ha scritto un saggio, “La vita non è un tango”. Lei cosa pensa al riguardo? Quanto il tango in realtà rappresenta la vita?
R – Confesso la mia ignoranza. Conosco Milo Manara, il disegnatore.  Conosco Fausto, quello di Goethe, che aveva venduto l’anima per fermare l’attimo fuggente, ma il genere rioplatense non era ancora nato… All’epoca d’oro i tanghi cantavano versi come: “La vita è un tango”, “Hai creduto che la vita fosse un tango”, “La vita è una milonga”, “La vita, tomba di sogni”, “La vita è una ferita assurda”.
D – Cos’ è per lei il tango…?
R – Un genere musicale complesso che sta all’America del Sud come il jazz sta all’America del Nord. Che ho incamerato subliminalmente durante la mia infanzia e la mia adolescenza, nei paesi d’origine,  e che in parte mi rappresenta.
D –  Qual è il suo tango preferito e cosa le evoca?
R – Uno dei miei tanghi preferiti è “Yuyo verde”. Mi piace la musica, di Domingo Federico, raffinata, suadente; mi piacciono le parole, di Homero Expósito, che sono evocazione pura: “Dove sei, dove sei?… Un lampione, un portone, proprio uguale a un tango, e noi due perduti, presi per mano sotto un cielo d’estate che se ne andò”.
D – Lei ha definito Gardel a altri pilastri del tango “ingombranti presenze”… Le andrebbe di spiegarci questo concetto?
R – Parlavo del tango come rito officiato da presenze importanti, ingombranti, che occupano tutto lo spazio. Presenze che non sono più tra noi: Gardel, Discépolo, Pugliese, D’Arienzo, Goyeneche, Manzi, Troilo, Virgilio e Homero Expósito, Fiorentino, Piazzolla, tutti musicisti, cantanti, parolieri, nemmeno un ballerino, perché solo alla fine, proprio in ultimo, il tango si pone come ballo. Invece in  Italia il ballo è prioritario.
D – C’è un ballerino o una coppia di ballerini che lei ama particolarmente e per quale motivo?
R – Se dovessi pensare a un ballerino o a una coppia di ballerini, finirei per citare gli ultimi che ho visto in scena o in una sala da ballo. Non ho modelli.
D – I cinesi annoverano la musica e la danza tra i piaceri terreni… Immagino che lei sia d’accordo…
R – Più che piacere, sono arte, se d’arte si tratta. Esse accadono, non si spiegano. Esprimono l’inesprimibile.
D – Quali sono gli altri piaceri terreni secondo lei?
R – Terreni in senso opposto all’ultraterreno? O perché non sono marini né aerei? Sto scherzando…  Il primo otto a scuola è un piacere incommensurabile, il primo piacere intellettuale. Eppoi ci sono i piaceri dei sensi, che è auspicabile siano comuni a tutti. E quelli del sesto senso, quelli del caso, vuoi mettere? E il piacere di piacere agli altri e  a se stessi?
D – Il Brasile per lei qualcosa di estremamente importante e affascinante… In che modo?
R –  Il mio primo amore e l’ultimo venivano dal Brasile. Il portoghese l’ho imparato per simpatia, per osmosi, e lo parlo con disinvoltura, molto meglio dell’inglese, che l’ho studiato alacremente.  A Cuba ho tagliato la canna da zucchero con una splendida compagnia di rivoluzionari brasiliani. Mio padre e mia madre sono morti un 2 gennaio, in due paesi diversi, a otto anni di distanza, e il 2 gennaio  è il giorno della sirena Yemanjá, che si celebra a Salvador de Bahia con una cerimonia di massa, rito al quale partecipo, da laica. Come vede, sono indissolubilmente legata a quel paese.
D – Da dove nasce e come si sviluppa la sua identificazione con la sirena?
R – Un debito che ho contratto quando ho scritto “Musica strega”, dove sbrogliavo queste tematiche. Le Sirene cantano, deviano l’uomo affinché si lanci in mare, compia il salto nell’ignoto, l’unica grande avventura. L’uomo però si fa legare per non seguirle, chiude con la cera le orecchie dei suoi compagni. La seduzione, cara, non sono i reggicalze neri e rossi. Ma la spinta definitiva me l’ha data Fellini, al quale ho dedicato il mio primo libro sulle Sirene. Io ho subìto un paio di interventi ai piedi, cadute terribili, fratture alle gambe, che qualche medico spregiudicato ha definito “somatizzazioni da sirena” e che ormai mi caratterizzano allegramente.
D – Lei ha avuto l’onore di lavorare con Fellini… Cosa le ha lasciato questa esperienza?
R – Oltre a lavorare con Fellini ho avuto la fortuna di intessere con lui un’amicizia rara ed esigente. Quello che si dice un feed back che più positivo non era possibile. Esisto nel suo film “La Città delle Donne”, in carne e ossa, nella “danza di musica strega o della tartaruga”, scena di vocalità unita al gesto, e la mia canzone è il motivo su cui si scatena la festa collettiva. Fellini è venuto a casa mia, ha frugato nelle mie cartacce, ne ha fatto pubblicare alcune, e questo mi ha provocato a tirar fuori tutto. Un processo lento, certo, che mi ha portato a essere meno occulta, meno malinconica, più luminosa e leggera.
D – Ho conosciuto e intervistato Maria Fux, che pur avendo 82 anni sembra sempre una ragazzina; lei mantiene altrettanta giovinezza. Qual è il vostro segreto?
R – Accettare l’età. Non scusarsi dicendo di essere giovani dentro. Liberarsi da ogni forma di sopportazione nociva e di schiavitù. Curare il corpo come l’anima.
D – Secondo lei la danza può essere terapeutica?
R – Nel libro “Musica strega”, una ricerca sulla dimensione femminile della musica andata perduta, studio le ninne nanne, guaritrici della follia come ipotizzava Platone, e le danze in tondo, capaci di agire nel profondo.
D – In merito alle tematiche dei tanghi, Lei ha parlato di atteggiamento passatista… Forse anche questo è un aspetto terapeutico del tango, che porta a galla il passato…?
R – Forse. Ma il passato appare piuttosto come un rifugio. Il quartiere incontaminato, l’infanzia felice, sublimata, le morte stagioni nel gioco incessante del ricordo e dell’oblio. Non per andare avanti. Giano con un solo profilo, quello che guarda indietro.
D – Libertad Lamarque, Tita Merello e tante altre donne rappresentano un lato della cultura del tango ricca di sfumature… Mi sento di annoverare anche lei tra queste fantastiche donne…  Soprattutto per l’impegno profuso nei confronti della cultura latinoamericana in generale e anche per loro. Cosa ne pensa?
R – Grazie di associarmi a loro. Io però sono partita con una ventina d’anni di vantaggio, anche se il tango “Volver” dice “que veinte años no es nada”… Nei miei libri, nelle conferenze,  cerco di dare alle donne il risalto che si meritano. So per esperienza le dimenticanze, i lapsus che si tendono a commettere, l’invisibilità che ci attende specie quando superiamo una certa età. Libertad Lamarque, come me, era figlia di anarchici; mio padre volle mettermi il nome di Libertà, ma l’anagrafe di Milano gliel’ha proibito, per cui optò per America, che si ridusse a Meri…